La recente Pandemia, evento che ci ha colti di sorpresa in un’epoca in cui “l’uomo” aveva la sensazione di padroneggiare gli eventi, di controllare il futuro, ha generato un cambio veloce dei maggiori paradigmi. Per ciascuno di noi e con intensità e gradazioni diverse, alcune certezze sono crollate e abbiamo dovuto esplorare nuove modalità di vivere la quotidianità, studiare e lavorare. Abbiamo, inoltre, appreso velocemente dall’area della digitalizzazione per rendere ancora possibile un contatto con “l’altro“ e con il mondo esterno. La pandemia ha sicuramente avuto una funzione di accelerazione sugli apprendimenti digitali per tutti noi. Naturalmente tutto questo solleva alcuni dubbi: il contatto con il mondo virtuale e digitale è un’opportunità o come alcune correnti di pensiero sollevano è un vincolo e potrebbe diventare un problema? La distanza fisica è distanza relazionale, quanto abbiamo bisogno della presenza, del contatto fisico, che conseguenze può avere l’assenza di contatto e ancora come tutto ciò è connesso al mondo del lavoro? Mi voglio soffermare in questo articolo sul concetto di benessere dei ruoli organizzativi che gestiscono la propria attività in remoto con un preciso punto di vista o lente che è quella della strutturazione del tempo. Come cambia la strutturazione del tempo tra lavoro a casa e lavoro in presenza? Come una diversa strutturazione del tempo in era digitale può in qualche modo impattare sul benessere delle persone e generare Technostress?
Quando mi occupo di cambiamento organizzativo o seguo ruoli individualmente, uno degli aspetti che osservo per meglio comprendere il “mondo” dell’altro e verificare lo stato di benessere, è come le persone strutturano il loro tempo durante il lavoro: hanno tempi di riflessioni, si concentrano con passione sulle loro attività, si offrono allo scambio autentico con i colleghi, rincorrono le attività senza respiro, hanno grandi spazi per lamentarsi di come le cose non vadano, etc….
Voglio quindi applicare lo stesso principio al lavoro da remoto in questo periodo; lavoro da remoto che non è, per essere chiari, smarworking ovvero lavoro agile da qualunque postazione, al mare come in ufficio o a casa e che normalmente viene comunque gestito con una percentuale di presenza in ufficio.
L’individuo, i ruoli organizzativi e le culture organizzative stesse, viste dalla prospettiva di come strutturano il proprio tempo possono essere “esplorate” a partire da come “mixano” i 6 seguenti modi:
- Ritiro o isolamento: è il tempo del “ritiro”, tempo per il dialogo con sé. Ci si può ritirare fisicamente ed anche psicologicamente. Un ritiro estremo è spesso indice di un malessere nel contatto con l’esterno o con il contesto.
- Rituali: consente alle persone comunicare senza eccessivi coinvolgimenti, né soddisfazioni. Es: Ciao-Ciao, come va? – Benone e tu? Abbastanza bene. – A presto!
- Passatempi: si riferisce al tempo dedicato a feste, eventi, contatti sociali che consentono alle persone di scambiare idee, ricevere e dare stimoli, incontrarsi, confrontarsi anche se non necessariamente in una forma “vicina” e autentica. Sono esperienze che consentono alle persone di conoscerne altre e di definire successivamente il grado di un’eventuale conoscenza più approfondita.
- Attività: si basano su una serie di azioni individuali e/o collettive che consentono alle persone di raggiungere obiettivi.
- Giochi psicologici: si tratta di scambi tra le persone, connotati da ripetizioni e ambiguità messi in atto attraverso strategie infantili anche in età adulta e sul lavoro; possono creare disagio, potenziale conflitto e svalutazione di sé o del contesto.
- Intimità: è il modo profondo di strutturare il tempo ed ha a che fare con un contatto umano che genera emozioni o sentimenti come empatia, affetto, condivisione profonda. E’ una dimensione del tempo che apre spazio all’autenticità e all’essere se stessi con “l’altro/gli altri”. E’ un “tempo” di profondo benessere.
E’ chiaro che in un’organizzazione (e lo stesso è per i ruoli e per gli individui) che funziona tutte e 6 le modalità sono presenti ma la maggior parte del tempo è dedicato all’attività. In alcuni casi assisto a spazi di intimità tra individui e le due importanti presenze, nel mix dei sei elementi, mi rassicurano perché indicano un buono stato di benessere dell’organizzazione e dei ruoli stessi.
Nella mia recente esperienza di consulente, counselor e formatrice che opera da remoto in ambito organizzativo e in tempi di pandemia, ho naturalmente indagato sulla strutturazione del tempo e ho assistito, dalla mia prospettiva, a due diverse fasi.
Una prima fase, ad inizio pandemia, in cui le persone raccontano di un tempo di attività importante ma anche di condivisione, solidarietà seppur a distanza, scambi intimi “sul sentire” e sicuramente meno spazi per passatempi e rituali che hanno comunque una loro necessità di esistere, in quanto consentono alle persone una dimensione di “conoscenza” senza eccessivi coinvolgimenti ma “al sicuro” e con la prospettiva di eventuali “approfondimenti e vicinanze”. Ritrovo il “senso” e la veridicità del racconto anche nel processo di apprendimento e nell’approccio alla formazione: riflessioni, ascolto, condivisione e apprendimento. Per dirla nel linguaggio analitico transazionale scambi autentici e ricchi di “nutrimento” nonostante la distanza. Mi chiedo se questi scambi abbiano avuto anche una funzione “riparativa” dopo il grande trauma della pandemia e del lockdown.
Una seconda fase, direi da settembre ad oggi, in cui ho notato grandi differenze sia nel racconto delle persone rispetto all’utilizzo del loro tempo al lavoro, sia nell’approccio alla formazione.
Le persone raccontano di un lavoro da casa incalzante, tra riunioni, comunicazioni e operatività. Mancano gli spazi del caffè e delle chiacchere, gli incontri di lavoro ma allo stesso tempo conviviali come eventi, pranzi di lavoro, etc..(rituali e passatempi)
Gli orari di lavoro a casa si dilatano, non c’è più una separazione, manca l’opportunità di approfondire le relazioni professionali.
Si ricavano, inoltre, a causa dei ritmi incalzanti e di “questa iper connessione”, sempre meno spazi per una comunicazione più profonda ed empatica.. (intimità). Manca la visione d’insieme, il “vedersi tutti interi”, “la presenza di corpi” come direbbe Recalcati che è sempre potenziale.
Anche in questo caso ritrovo “il racconto” nel processo di apprendimento: le persone arrivano e si percepisce una iperconnessione (tendono a scrivere mail durante le sessioni di apprendimento, i tempi di riflessione individuale e di scambio reciproco sono meno intensi e più frettolosi). Durante le sessioni devo ricordare più volte le regole del gioco (il setting per gli addetti ai lavori) e ricordare l’importanza di un tempo di riflessione. Riportare le persone ad un utilizzo del proprio tempo più variegato, opzionale e dedicato, anche se per qualche ora, ha spesso una funzione di nuova acquisizione di consapevolezza della quale spesso mi sono grate a fine percorso.
E quindi oggi le persone sono a rischio di technostress? Naturalmente si tratta di una domanda retorica in quanto la stessa risposta dovrebbe essere frutto di un’esplorazione e di un’indagine ben più approfondita e complessa di ciò che noi possiamo fare oggi e ipotizzo anche che le risposte potrebbero essere differenti tra loro, in funzione delle individualità, delle storie personali, del contesto familiare, organizzativo e sociale.
E’ certo che una buona strutturazione del tempo abbia un profondo impatto sul benessere; noi non possiamo vivere e lavorare in modo sostenibile (con qualità della salute, del benessere e con produttività) senza una varietà di modalità nell’utilizzo del nostro tempo. Non possono mancare momenti di “intimità” e di nutrimento profondo anche in ambito professionale, non possono mancare i rituali e i passatempi che assicurano un certo grado di “certezza” e stabilità, non possono mancare gli “spazi del ritiro” quindi del contatto con sé, della riflessione, spazio ambito e ricercato, quando c’è consapevolezza, in una fase di iperconnessione.
Le più recenti ricerche e rilevazioni ci restituiscono un quadro non del tutto rassicurante in merito a bisogni e sintomatologie degli individui e dei ruoli organizzativi oggi:
- Due lavoratori su tre soffrono di burn out, ovvero il 69 % dei lavoratori, il 20 per cento in più rispetto ai mesi precedenti il lockdown (Fonte: Monster.com- settembre 2020)
- Da inizio pandemia su oltre 2000 collaboratori, il 28.3% riporta difficoltà di concentrazione, il 20% di impiegare più tempo un compito, il 14.7% di pensare, decidere, ragionare più faticosamente, il 12.4% di intraprendere compiti sfidanti, l’ 11.8 % di destreggiarsi tra compiti e responsabilità. (Fonte: statista.com, dicembre 2020)
- 1 persona su 3 ha sintomi ansioso depressivi in questo periodo di pandemia. Rilevazione: SINPF, Società Italiana di Neuro Psico Farmacologia
- Si rileva non solo un aumento dei sintomi ansioso-depressivi ma una difficoltà di accesso ai servizi di cura. Nel 2020 la World Heath Organization promuove la campagna «The Mental Health Coalition» data la difficoltà di accesso ai servizi per la salute mentale di tutte le persone che attraversano stress per la pandemia e per le conseguenze sociali e lavorative.
Dati statistici, rilevazioni a campione, ricerche fanno emergere da uno sfondo che sembrerebbe omogeneo un’immagine che a me appare oggi come “un’ingarbugliata matassa” dove l’unica cosa chiara è l’emergere di bisogni che tra loro si intrecciano e che hanno a che fare “col prendersi cura”, con la strutturazione del tempo, con la consapevolezza di una “new normal” ancora incerta, con l’evento traumatico di una pandemia, con la perdita del controllo sul proprio futuro, con un’iperconnessione che può diventare technostress. Bene, da dove iniziare e dove sta il confine tra i diversi elementi è ancora in divenire.
E’ certo, invece, che oggi più che mai l’ascolto di sé e degli altri, la consapevolezza in merito ai propri bisogni e la ricerca di una pluralità di opzioni per soddisfarli, la capacità di chiedere aiuto, la RICERCA sempre e ovunque, si confermano “vie maestre” per esplorare “i fili” e “creare senso” all’interno di una “ingarbugliata matassa”.