The central question of any anthropological inquiry has always been: what makes us human? The answers to this question have been as varied as the many brands of anthropology proposed since the beginning of the discipline, which is usually traced back to Edward B. Tylor’s Primitive culture (1871). One way of answering this question has been to look at the evolution of the human species; this is what biological anthropologists and paleoanthropologists do. Another way has been to look at the different ways in which humans change the environment, organize their lives, and represent them symbolically. This is what archaeologists and sociocultural anthropologists do. A third way has been to examine what it means to be a species that has developed such a sophisticated system of communication, usually referred to as “language.” This is what linguistic anthropologists do. [1]
Nel suo Linguistic Anthropology, Alessandro Duranti introduce l’antropologia linguistica come un campo interdisciplinare che attinge da altre discipline già formatesi in modo indipendente, e in particolare dalle due da cui prende il nome: l’antropologia e la linguistica. Sicuramente, l’antropologia linguistica costituisce una parte integrante del campo antropologico, dal momento che esamina il linguaggio attraverso il prisma di preoccupazioni intrinseche alla disciplina: la trasmissione e la riproduzione di ciò che definiamo cultura, la relazione tra diversi sistemi culturali e le diverse forme di organizzazione sociale, il ruolo delle condizioni materiali di esistenza nella comprensione che le persone hanno del mondo. Tuttavia, le domande di ricerca dell’antropologia linguistica non sono necessariamente guidate da questioni inerenti unicamente all’antropologia. Ad esempio, non tutti coloro che parlano di cultura in campo antropologico accettano la nozione dinamica e complessa che molti antropologi linguistici contemporanei danno del linguaggio: alcuni, infatti, continuano a considerarlo principalmente come un sistema di classificazione e rappresentazione, quando non di “etichettamento”.
Per gli antropologi che si occupano di linguistica il linguaggio, lo strumento intellettuale più flessibile e potente creato dall’essere umano [1], svolge un ruolo essenziale nel mediare gli aspetti ideali e materiali dell’esistenza umana, determinando di conseguenza modi particolari di essere nel mondo: è questa la visione dinamica del linguaggio che dà all’antropologia linguistica un posto unico all’interno delle scienze umane e sociali.
Ciò che distingue gli antropologi linguistici dagli altri studiosi che si occupano di linguaggio è il considerarlo un insieme di risorse simboliche che contribuiscono a costituire, da una parte, il tessuto sociale, e dall’altra la rappresentazione individuale di mondi reali o possibili: questo consente di affrontare in modo innovativo il costituirsi dell’autorità, la legittimazione del potere, le basi culturali del razzismo, il cambiamento sociale – e non solo: ha a che fare con la costruzione del sé, la possibilità di evolvere, l’immaginazione, anche in contesti di fragilità. Ci avviciniamo dunque al mondo della cura.
Il lavoro dell’antropologo Ignasi Clemente, Uncertain Futures: Communication and Culture in Childhood Cancer Treatment [2], può essere preso a esempio, in quanto offre un’analisi della comunicazione medica nel reparto di oncologia pediatrica del Catalonia Hospital di Barcellona, in un contesto di incertezza sul risultato dei trattamenti e sul decorso della patologia, con lo scopo ultimo di identificare delle strategie di comunicazione del cancro in campo oncologico. Nello specifico, il libro esamina i tentativi dei bambini e dei giovani pazienti di partecipare alle conversazioni sul proprio trattamento, nelle diverse fasi di remissione, ricaduta, cura, ed eventuale fase terminale.
Quello che emerge dal lavoro di Clemente è che analizzare il linguaggio è fondamentale per comprendere il modo in cui i bambini, i loro familiari e gli operatori sanitari costituiscono, influenzano e conferiscono un senso a quanto succede all’interno dell’ospedale: quali strategie vengono messe in campo per trasmettere un ottimismo (riguardo al trattamento, alle prospettive di vita, e così via) verso cui ci si sente quasi obbligati? Come viene negoziata la speranza nell’interazione tra curanti, pazienti e famigliari? Può la speranza essere incarnata nel linguaggio? Che peso hanno i non detti nell’economia comunicativa? Quali sono dunque i limiti del linguaggio verbale e che ruolo hanno il silenzio e la postura nella comunicazione? Il linguaggio, i linguaggi messi in atto da pazienti, caregivers e curanti si rivelano sia una risorsa che un prodotto dell’interazione sociale.
Il lavoro di Clemente è un esempio di come l’antropologia linguistica può intrecciarsi con quella medica, e di come la sua applicazione ci permette di ripensare criticamente le dinamiche che si verificano nell’incontro clinico: le domande che emergono dall’etnografia, potenzialmente, riguardano qualsiasi contesto di cura, e aprono a diversi tipi di linguaggio, a prospettive molteplici.
L’etnografia, metodo di indagine dell’antropologia, ci aiuta a vedere nella pratica il rapporto tra linguaggio e contesto al centro della riflessione antropologico-linguistica. Alcune dimensioni del parlare possono essere catturate solo studiando ciò che le persone effettivamente fanno con il linguaggio, unendo parole, silenzi e gesti al contesto in cui questi segni vengono prodotti e hanno luogo: una cultura
is not just contained in the stories that one hears its members recount. It is also in the encounters that make the tellings possible, in the types of organization that allow people to participate or be left out, be competent or incompetent, give orders or execute them, ask questions or answer them. […] [T]o be an ethnographer of language means to have the instruments to first hear and then listen carefully to what people are saying when they get together.
[1] Alessandro Duranti, 1997. Linguistic Anthropology. Cambridge: University Press.
[2] Ignasi Clemente, 2015. Uncertain Futures: Communication and Culture in Childhood Cancer Treatment. Oxford: Wiley Blackwell.