Potrebbe presentarsi e presentare il suo lavoro?
Mi chiamo Marco Cordero, sono medico cardiologo e svolgo la mia professione presso il pronto soccorso di un grande ospedale terziario alla periferia di Barcellona. Il mio lavoro è gestire pazienti con malattie cardiache di qualisasi tipo e gravitá nella fase di acuzie ed instabilitá, stabilizzarli e impostare le basi del loro percorso cardiologico successivo.
Come intende lei la violenza in ambito sanitario?
Qualsiasi tipo di atteggiamento ostile o aggressivo verso il personale sanitario, di tipo físico ma anche verbale o psicológico, che vada ad alterare lo sviluppo di una collaborazione costruttiva e di un processo comunicativo tra il sanitario ed il paziente, improntato ad ascolto, rispetto, empatía. Dal mio punto di vista violenza è il fallimento della relazione medico-paziente dovuto al prevalere di spinte ed impulsi irrazionali, è la distruzione dell’atto medico in se stesso, la sua completa denaturalizzazione. Nella violenza gli ideali su cui si fonda la medicina, di altruismo, rispetto, vicinanza cedono il passo alla paura, al rancore, alla paralisi.
Ha mai subito o assistito a episodi di violenza nei confronti degli operatori sanitari?
Si. Ho assistito a numerosi episodi di violenza nei confronti degli operatori sanitari, personale medico ma soprattutto infermieristico e io stesso sono stato vittima di aggressioni verbali e, in una occasione, di violenza física. Sentii una profonda rabbia ma anche una grande impotenza e frustrazione.
Nel triennio 2019-2021 sono stati più di 4.800 i casi codificati dall’INAIL come violenze, aggressioni, minacce e similari nei confronti del personale sanitario e socio-sanitario. Per questo nel 2022 è stata indetta per il 12 marzo la Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari. Infine, il 10 marzo 2023, il Ministero della Salute ha lanciato la campagna #laviolenzanoncura. Cosa ne pensa?
In generale in ambito sanitario si lavora con materiale sensibile, con il dolore, con la sofferenza e con i momenti più difficili nella vita delle persone, nei quali non sempre è facile mantenere il controllo delle proprie emozioni e delle proprie reazioni. È assolutamente legittimo che ciascuno reagisca all’esperienza della malattia propria o dei propri cari secondo il proprio modo di essere e di esprimersi, ma nel momento in cui tutto ciò mina la integrità fisica o psicologica di chi si investe per alleviare il dolore ed accompagnare chi soffre, allora devono essere posti dei limiti. La medicina deve fondarsi in primo luogo sul rispetto reciproco. Credo che ogni struttura sanitaria, di ogni ordine e grado e le stesse istituzioni debbano assicurare condizioni e misure concrete per prevenire la violenza e proteggere chi ne è vittima. Credo che sia importante tanto una educazione generale e una sensibilizzazione al rispetto verso il lavoro dei professionisti della salute quanto una macchina giuridica che assicuri sostegno e protezione e che le eventuali misure punitive vengano prese laddove siano necessarie.
Nel mondo delle environmental humanities esiste il concetto di slow violence, formulato da Rob Nixon nel 2011, e che l’autore così definisce nel suo libro: “a violence that occurs gradually and out of sight, a violence of delayed destruction that is dispersed across time and space, an attritional violence that is typically not viewed as violence at all”. Crede che esistano fenomeni simili nel mondo della salute e della sanità? Che similitudini e differenze trova?
Credo che nel mondo sanitario esiste molta violenza sommersa che non arriva a conoscersi a volte neanche nella stessa struttura sanitaria nella quale si produce, spesso per timore alle conseguenze. Gli orribili e deprecabili episodi che si leggono sui giornali di attacchi, aggressioni o addirittura omicidi contro personale sanitario sono la punta dell’iceberg ma, nell’esercizio quotidiano del lavoro di migliaia di persone che dedicano la loro giornata ad accompagnare o ad assistere chi soffre, esiste una violenza sottile fatta di freddezza, di parole non dette o anche non taciute, di pretese non corrisposte, di giudizi affrettati. La medicina è un dare ed un ricevere, è un condividere per capire, per accompaganre e per aiutare, è sodalizio tra persone prima che tra ruoli. Purtroppo molte volte sono state normalizzate da parte degli stessi sanitari situazioni o atteggiamenti che non dovrebbero essere tollerati sia in quanto atti irrispettosi verso chi esercita la professione sia in quanto atti che minano la natura stessa della medicina. Tutto ció genera alla fine malcontento, insoddisfazione, perdita di passione, disinteresse, e fa sí che il sanitario svolga una medicina piú difensiva che propositiva, piú chiusa e meno empatica.
Come si può rilevare la violenza là dove non si manifesta in singoli episodi eclatanti?
Credo che sia indispensabile educare i professionisti che lavorano in ambito sanitario a riconoscere le più piccole manifestazioni di violenza, a identificare atteggiamenti o comportamenti potenzialmente esplosivi. Molte volte la violenza risponde a pattern specifici di comportamento, di espressione verbale o anche non verbale, quasi spie catalizzatrici di una escalation. Rilevare la violenza è anche riconoscerla da dettagli prima che si manifesti in eccessi senza ritorno. Credo poi che ogni struttura sanitaria debba avere il proprio protocollo di attuazione, a disposizione di tutte le persone che vi lavorano e che questo protocollo debba contemplare tutti i tipi di violenza e che debba essere facilmente accessibile mediante circuiti interni agili e organizzati a qualsiasi lavoratore. Infine credo che l’amministrazione o le istituzioni debbano assicurare la protezione alle vittime di violenza che decidano segnalarlo, dal momento che spesso molti episodi non vengono registrati, non solo per quel proceso di normalizzazione di cui parlavo prima ma anche per paura da parte delle persone colpite di eventuali conseguenze o rappresaglie nel caso di denunce o segnalazioni.