L’uscita di scena

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Una delle preoccupazioni che più mi assillano in questo tempus fugit è l’ “uscita di scena”, termine che uso metaforicamente per indicare la fine di una visita, di un colloquio, di una lezione, di un congresso: in questa corsa contro il tempo, condizione esistenziale del nostro secolo, la Sindrome del Coniglio Bianco, spesso – purtroppo troppo –  ci concentriamo sulle tante attività che desideriamo realizzare con i nostri discenti.

Noi delle Humanities for Health

Noi, nelle Humanities for Health – Umanesimo per la salute e nella Medicina Narrativa –  seppure pieni di buona volontà, forse non siamo ben consapevoli del “capitale umano” con cui abbiamo a che fare: Medici, Infermieri, Pazienti, Fisioterapisti e altri professionisti della cura.

Lanciamo uno stimolo a partire da una narrazione letta da Wolff, da Verghese, da Ilich, dai racconti reali di quanto accaduto durante il Covid-19 e chiediamo riflessioni guidate per iscritto e poi lette oralmente. Ci concentriamo sulle persone, ci concentriamo perché quel momento serva a rielaborare, a riflettere appunto, con la scrittura riflessiva, confidando che da sola la scrittura sia sufficiente per star meglio dopo stanchezza, perdita, e sfiducia. Ingaggiamo un musicoterapeuta che porta le persone a esprimersi suonando, e poi a fine della musica ecco che il musicoterapeuta ha finito il suo compito. E allora possiamo dire che nel primo caso, abbiamo creato un laboratorio narrativo e nel secondo assistito a un concerto co-creato assieme. E poi il sipario si è chiuso. 

Così presi dal voler riempire di parole, attività più o meno intimistiche e ludiche, lasciamo perdere il finale, che insieme all’apertura, quei minuti in cui si costruisce la fiducia reciproca, è nella formazione sia in presenza che a distanza un momento fondamentale.

Il Giappone

Nel 2006 ero in Giappone, per un corso di comunicazione a cardiochirughi giapponesi: come i lettori immaginano e sanno, il Giappone è il regno del secondo spaccato, della puntualità per definizione: ahimè, un medico aveva sollevato un dubbio legittimo su come comunicare efficacemente ad un congresso la sua ricerca. Sapevo che ci sarebbero state pochissime occasioni per rivederlo. E così gli ho risposto su una possibile strada che avrebbe potuto perseguire: mi sento toccare una spalla, era il “time keeper” che mi stava avvisando che il tempo era scaduto. Sono andata avanti fino a che io e il cardiochirurgo non avevamo trovato un accordo – tempo un minuto di sforamento. Ci guardarono male, avevamo profanato la sacralità del rispetto del tempo, ma io eticamente mi sentivo a posto con me stessa. Comunque quella lezione giapponese – d’altro canto è il paese che ha inventato il Total Quality Management – assieme a una lezione di counseling in cui quasi per sincronicità ci avevano ricordato l’importanza di lasciare dei tempi per la chiusura, cambiarono il modo di scrivere l’agenda. 

Da lì, seppur con fatica per il troppo horror vacui, in cui l’agenda della formazione sulla medicina narrativa si riempie, il tentativo, la ricerca è quella di creare una uscita di scena che sia collettiva, terapeutica, contestualizzata, e in qualche modo epica. 

UN’USCITA DI SCENA… Collettiva

Per collettiva intendo che tutte le voci che hanno partecipato al percorso/corso devono essere contemplate: quale voce?  Quella che è arrivata ad un cambiamento, seppur minimo, quel “momento” come direbbe John Launer, in cui la storia cambia il suo corso. La cinetica di ordine zero, “nessun movimento,” non può esistere nella formazione, nella clinica, e nei sistemi viventi:  se le persone dichiarano nel giro finale che si sentono “come prima” forse vuol dire che noi come docenti non siamo stati abbastanza bravi, oppure che loro non se la sono sentiti di mettersi in gioco con le attività proposte. E qui la domanda introspettiva la si può porre, “In che senso come prima?” e nella metà delle situazioni poi viene fuori la difficoltà, l’imbarazzo, il dolore: sta a noi rassicurare e consolare. A noi docenti: anche facendoci forti della forza del gruppo. Ma è responsabilità nostra non mandare a casa persone “doloranti” con ferite che abbiamo aperto noi, con la nostra lettura.

UN’USCITA DI SCENA… terapeutica

Terapeutica: leggendo testi così forti come questo tratto da racconti corali di pandemia 

“Forse è proprio questa la ragione della mia fatica a scrivere di questi giorni. Un “troppo pieno” di sensazioni contrastanti e fortissime, condensate in un anno e mezzo in cui tanto della mia vita, personale e umana, è cambiato. Ho affondato ancora di più le radici dentro i rapporti di amore, di amicizia e di fede che ho riscoperto come doni del tutto gratuiti e per nulla scontati, così come il fatto di alzarmi al mattino, respirare, vivere e commuovermi, sentirmi fragile e battagliera insieme. Una intensità di vita frutto del Covid, che mi ha infettato ma non ucciso, che mi ha fatto provare angoscia per la paura che prendesse chi amo (magari proprio per causa mia)” 

come stimolo narrativo, è molto probabile che verranno fuori i ricordi di quel 2020, con la sua ambivalenza, tra la vita e morte. E se la persona che ha scritto quei cinque minuti su foglio bianco ispirato da tale racconto trattiene le lacrime tra fierezza, orgoglio e commozione è terapeutico fare silenzio, quel silenzio magico del rispetto e dell’onore, guardare quel viso e annuire. Fermarsi, e non andare avanti a leggere la prossima testimonianza come su nulla fosse, perché il tempo fugge. E rispetto alla musicoterapia,  dopo aver suonato la musica, la sistematizzazione del “come vi siete sentiti?” “come è stata l’esperienza?” cristallizza, rende terapeutica la sessione, sennò, ripeto, è stato un bel momento di distrazione, forse utile a produrre endorfine per un breve tempo, ma che ha ben poco di trasformativo. La differenza tra l’uso dell’arte e dell’arteterapia, è che la seconda ha sempre un momento prima individuale poi collettivo di riflessione guidata. Sennò diventa come l’ultima serie vista su Netflix. Un bene consumabile, dove l’unico commento è quello primitivo di Facebook “Metti un like se ti piace”.

UN’USICTA DI SCENA… CONTESTUALIZZATA

Contestualizzata: la generalizzazione nella divisione del mondo in Bianco o Nero è la perdita di vista del contesto, la mancanza di pensiero fino, in grado di cogliere il contesto, fatto delle sue peculiarità. Chi è entrato in un ospedale che ha visto tanto Covid-19, tanta morte inattesa, non potrà dire le stesse cose in aula, sia in apertura, come nelle attività in corso, come in chiusura di chi ha “semplicemente” bloccato le sue attività ambulatoriali. Non c’è un vero e proprio ranking, sappiamo che quello che conta è la percezione dell’esperienza, ma esistono oggettivamente delle differenze di contesti, che vanno riassunti, proprio anche nell’uscita di scena.

UN’USCITA DI SCENA… EPICA

Epica: sta a noi tirare le fila ultime: i discenti si sono spesi, hanno sorriso, sono uscite probabilmente delle lacrime, sono intervenuti con le loro parole e a volte “confessioni” e non possiamo mandarli via solo – e qui insisto- come un troppo spesso accade- con un “grazie e arrivederci.” Il cinema e il teatro ci fanno da maestri: un finale che fa ricadere la libertà di scelta massima sugli spettatori è data da Matrix, nella versione originale del 1999 “”Where We Go From There Is A Choice I Leave To You.” (Dove andiamo da lì è una scelta che lascio a Voi/ aTe”): questo invece il finale del Sogno di una Notte di Mezza Estate di Shakespeare: 

“Se noi ombre abbiamo offeso,
pensa solo a questo e tutto sarà riparato,
che non avete fatto altro che assopirvi qui
mentre queste visioni apparivano.”

E ancora dall’Amleto:

“Il resto è silenzio.” 
“Buonanotte, dolce principe,
E voli di angeli cantino al tuo riposo!”

Un film contemporaneo Matrix, che dall’inizio parla della libertà di scelta “pillola blu o pillola rossa”, una commedia “Il sogno di una notte di mezza estate” che ci lascia a metà tra illusione e realtà, sogno e sonno, e una tragedia l’Amleto, che nella morte finale generale chiede il lieto fine dopo il silenzio, attraverso il canto degli angeli.

FINALE

Teniamoci a mente che il finale è considerato la “metà risoluzione” della storia che si è intrecciata durante quel concerto, quella visita nello studio clinico, quel congresso, e quella sessione sulla medicina narrativa. E quindi va pensato, inventato man mano che ascoltiamo, improvvisato, seppur con un tocco di preparazione.  Ha bisogno di spazio concettuale ed emotivo e tempo fisico: così potrà perdurare nella memoria terapeuticamente, superando l’effetto veloce dell’usa e getta, per riaffiorare magari a distanza di anni. Solo così si potrà uscire di scena consapevoli di essere stati artefici di un piccolo, intangibile e invisibile cambiamento.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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