Le chiederei gentilmente di presentarsi.
Sono Massimo Castoldi, direttore sanitario di Humanitas Gavezzini di Bergamo dal primo gennaio del 2017. Ho sempre lavorato nelle direzioni sanitarie di numerosi gruppi ospedalieri lombardi, prima assistente e poi come direttore. Ho cominciato nel ‘90 circa nel Gruppo San Donato, poi sono stato direttore sanitario del Galeazzi di Milano, degli Istituti Clinici Zucchi di Monza, del Cardiologico Monzino, e quindi sovrintendente dello IEO. Sono un specializzato in igiene e medicina ospedaliera. Ho sempre svolto la mia carriera all’interno degli ospedali. Ho quindi esperienza diretta del privato e di collaborazione con il pubblico.
C’è chi parla di “partenariato” e chi parla di “sussidiarietà” della sanità privata rispetto a quella pubblica. Lei cosa ne pensa?
Tutta la sanità che definiamo “privata” è nient’altro che una modalità societaria per gestire il servizio sanitario pubblico. Il sistema sanitario italiano per il 75% circa delle sue necessità risponde ai cittadini con gli ospedali di diritto pubblico, e per circa il 25% attraverso gli enti di diritto privato. Quindi, il servizio pubblico è unico, è quella cosa cui il cittadino accede attraverso il sistema di rimborso pubblico – ticket o altro. Gli enti che forniscono tale servizio possono essere enti di diritto privato o pubblico.
Questa credo sia una distinzione fondamentale dal momento che il servizio bisogna misurarla sull’output: cosa offre un ospedale privato? Che cosa uno pubblico? Sempre un servizio al cittadino. Ovviamente esistono poi prestazioni che il cittadino paga di tasca propria, ma questo avviene sia nel privato sia nel pubblico.
Il concetto di sussidiarietà è un concetto che riscopriamo solo recentemente ma che era già contenuto nella nostra costituzione. Sussidiarietà sostanzialmente è offrire servizi al cittadino il più vicino possibile a dove il cittadino si trova. Chi è nel luogo più prossimo è sussidiario al fatto che lo stato risponde al bisogno del cittadino. Allora, in questo senso la sanità privata è sussidiaria.
Termine simile, ma solo apparentemente e forse per questo da evitare è “complementare”. La complementarietà alla sanità offerta da un ente privato indicherebbe che il sistema sanitario risponde alle necessità dei cittadini attraverso il pubblico, e se qualcosa residua da fare, si appoggia al sistema privato, lo compra. Allora, in questo senso, secondo me, subentrato alcuni problemi.
Altra cosa, in Italia, il sistema sanitario è regionalizzato, ossia le regioni rispondono in modo diverso a questi concetti di sussidiarietà/complementarità. In alcune regioni il privato è realmente complementare ed eroga al massimo 10% delle prestazioni, in altre è decisamente più integrato e quindi molto più sussidiario.
Qual era la situazione prima della pandemia e cosa è cambiato con essa?
La pandemia ha messo in luce i difetti dell’uno o dell’altro sistema, introducendo il concetto di emergenza nazionale. Per quanto in Lombardia e nelle altre regioni si sia tentato di integrare, in realtà è risultato presto chiaro: o tutto il sistema, pubblico e privato, si metteva a disposizione delle necessità del cittadino per la pandemia, o non ne saremmo usciti.
Nel mio ospedale, per fare un esempio, abbiamo 230 letti. Siccome siamo a Bergamo, che è stato l’epicentro della prima ondata, dei miei 230 letti non ne ho salvato praticamente nessuno per le patologie che sempre ci affliggono. Avevo 260 letti aperti, di cui 250 per il covid.
La pandemia ci ha insegnato, secondo me, una bella collaborazione tra pubblico e privato. Ogni settimana mi incontravo su Teams con tutti gli altri direttori sanitari di ospedali pubblici e privati e l’ATS e l’ASL, a discutere insieme dei problemi e a trovare soluzioni condivise. Questo sistema è stato oggi un po’ accantonato per via dei problemi di finanziamento agli ospedali, della caccia ai dipendenti. Passata l’ondata di emergenza un po’ la collaborazione si è persa, però sarebbe da recuperare nel ridisegnare i servizi ai cittadini.
Quali sono i punti meglio funzionanti della collaborazione tra pubblico e privato? Quali sono invece da migliorare?
Ci sono degli esempi che stanno venendo portati avanti in regione Lombardia. Per esempio, proprio qui nella provincia di Bergamo, sta partendo un progetto, PROFUMO («Progetto Follow-Up Malato Oncologico»). Si tratta di un progetto di costruzione di un percorso di follow-up continuo per i pazienti oncologici. A questo progetto partecipano tutti i pazienti oncologici residenti nella provincia di Bergamo e gli ospedali pubblici e privati, che si ridistribuiscono tutte le prestazioni di cui il cittadino ha bisogno. Ciò è stato possibile grazie alla condivisione delle agende per il bisogno dei cittadini della provincia di Bergamo.
Secondo me questo è il modo per collaborare: fare una pianificazione a monte delle necessità, avendo visto le necessità del territorio e vedendo chi può dare cosa, in che misura ciascuno può contribuire all’assolvimento del bisogno, perché, alla fine, il tema purtroppo è che il sistema sanitario nei fatti ha un tetto di spesa. O efficientismo il sistema e tentiamo di dare le risposte a chi ne ha bisogno, oppure in un sistema contingentato, economicamente a tetto, qualcuno rischia di prendersi prestazioni di livello inferiore e qualcuno invece che ha dei bisogni urgenti invece rimane tagliato fuori. Quindi la condivisione tra pubblico e privato dei percorsi di assistenza offre una risposta migliore ai bisogni del cittadino. Bisogna dare servizi utili e appropriati avendo un contingentamento delle risorse, sia negli ospedali pubblici, sia in quelli privati.
Come si dirige un ospedale privato? È diverso da uno pubblico?
Ci sono delle differenze sostanziali. Se poi si va nel particolare però i problemi sono gli stessi. Che cos’è un ospedale? Muri, requisito strutturale; macchine, requisito tecnologico; persone, requisito organizzativo. Un ospedale è un labour intensive, cioè ci vuole tanta gente per farlo funzionare, ma è anche tecnologicamente molto intenso, cioè l’insieme delle tecnologie fa dell’ospedale uno dei luoghi più evoluti dal punto di vista delle macchine e strutturale.
Quanto alle differenze tra pubblico e privato, quest’ultimo percepisce i suoi soldi dalle tariffe e dalle fatture che emette, i soldi che produce sono quelli delle prestazioni erogate. Gli ospedali pubblici, invece, hanno un finanziamento che gli deriva da un budget statale. Quindi il privato ha più agilità di gestione, può indirizzare meglio le risorse avendo meccanismi gestionali più rapidi. Per esempio, io per assumere un medico non ho bisogno di fare un concorso pubblico. Questa è certamente la prima differenza importante: sul personale noi andiamo per assunzione diretta, mentre in un ospedale pubblico qualunque persona entra per concorso.
Il pubblico rimane comunque più attrattivo perché sembra più stabile, contro il privato che sembra più friabile.
Tecnologicamente, l’ospedale pubblico per comprare macchine di alta tecnologia deve fare un bando europee, un privato se ha i fondi necessari frutto di un piano di investimento, può comprare quello che vuole – ovviamente poi ci sono tutte le autorizzazioni pubbliche ma non ha una necessità di bando.
E lo stesso vale per la struttura: se voglio costruire un nuovo padiglione, lo costruisco e poi lo faccio autorizzare; nel pubblico, l’approvazione deve avvenire prima dell’investimento dato che le risorse sono pubbliche.
Nel privato noi possiamo insomma essere più “rapidi”, pur avendo i nostri vincoli, le scelte gestionale sono sicuramente più facilmente implementabili. Al netto di questo, è vero che è più facile che il privato perda personale in favore del pubblico, che viceversa: la forza lavoro di un ospedale, quindi infermieri medici ecc., vanno più verso il pubblico.