RAFFAELLA PAJALICH è endocrinologa e membro del consiglio direttivo della SIMEN e ha appena completato il Master in Medicina Narrativa Applicata di Fondazione ISTUD nella sua decima edizione.
Come è maturata e con quali aspettative la decisione di formarti alle medical humanities e alla medicina narrativa?
Ho incontrato per caso la medicina narrativa nel 2015, mi sono imbattuta in un libro di Rita Charon e ho iniziato a interessarmene. Volevo dare una veste e un metodo strutturato a qualcosa che in qualche modo già facevo nella mia pratica clinica e in cui mi rispecchiavo, come ad esempio l’ascolto attento, o l’utilizzo della cartella parallela. Sono una persona curiosa e quando ho capito che c’era una scienza trasversale chiamata medicina narrativa, ho voluto conoscerla e studiarla. Volevo sia migliorare la mia pratica clinica, sia capire come coinvolgere altri medici, che tuttora purtroppo mi sembrano spesso distanti da un approccio narrativo alla professione. Sicuramente attraverso la formazione ho imparato molto sul metodo e sulla teoria della medicina narrativa, e l’ho unito a delle basi di humanities che avevo già per mio interesse personale.
Cosa rappresentano oggi le humanities e la medicina narrativa nel tuo lavoro di medico endocrinologo?
Rappresentano moltissimo: ho imparato ad ascoltare ancora di più le persone, a fare attenzione a quello che dicono i pazienti ma anche a quello che dico io, a dare estremo valore alla parola, a alimentare l’empatia reciproca, che ci deve sempre essere in una relazione di cura. La medicina narrativa mi ha aiutato a lavorare meglio, penso di essere una professionista migliore adesso, me lo esplicitano anche i pazienti che mi dicono di apprezzare il nostro rapporto anche dal punto di vista umano. Ho poi imparato che tenere presente l’aspetto emotivo e narrativo del medico sia fondamentale per la prevenzione del burn out, pericolo che soprattutto in questo momento storico è molto elevato. Questo è un aspetto che all’inizio non consideravo, ma è evidente la necessità di preservare anche l’altro soggetto della relazione, oltre al paziente prestare ascolto anche all’operatore sanitario. Il bagaglio emotivo del medico e dell’infermiere, la loro risposta al dolore dell’altro è qualcosa che raramente si considera, ma è una carenza enorme non considerarlo. Ricordo che quando studiavo, arrivata al quarto anno, quando si inizia a fare l’esperienza pratica e clinica, alle prime visite al letto del paziente ho pensato di non riuscire a fare questo lavoro e volevo lasciare, non ero pronta emotivamente ad affrontare la sofferenza del paziente. Poi nel tempo mi sono preparata, ma da sola. C’è un momento in cui il medico si trova davanti un essere umano in carne e ossa e la teoria deve per forza essere trasformata in pratica, non solo in termini di diagnosi e terapia farmacologica ma in termini di relazione umana, che è essa stessa una terapia. Molti medici reagiscono alla difficoltà dell’incontro con il dolore chiudendosi e decidono di eliminare la parte emotiva, ma ciò alla lunga non favorisce il rapporto terapeutico e porta al burn out, perché la sofferenza dell’altro filtra in ogni caso. La bellezza delle arti sostiene il medico, ne alimenta la mente e lo spirito, questo è quello che ho sperimentato personalmente con la musica e la letteratura per esempio, che sono le mie grandi passioni. Io negli anni ho da sola cercato di alimentare questa parte interiore che altrimenti sarebbe stata schiacciata, e che invece oggi utilizzo anche nella pratica clinica. Credo quindi che la medicina narrativa sia un modo per far riflettere i medici sulla relazione con il paziente, sul loro lavoro di curanti e, ribadisco, per prevenire il burn out.
Da membro del consiglio direttivo della SIMEN, che ruolo ha la rete tra altri professionisti sanitari esperti nell’utilizzo della medicina narrativa?
Negli ultimi anni c’è stato un boom di iscrizioni alla SIMEN che secondo me è un segnale di un forte interesse. Sono davvero felice di aver fatto un bellissimo e completo percorso formativo perché ho conosciuto tante persone straordinarie, molto preparate, e sto imparando tantissimo da questa rete. Si organizzano molte iniziative, c’è un pullulare di eventi che evidentemente risponde a una necessità forte, la necessità di riflettere sul lavoro sanitario e completarlo con una dimensione umanistica. La richiesta è appunto di umanizzare le relazioni di cura, andare oltre un approccio solo tecnico-scientifico, necessario in passato per il balzo tecnologico che c’è stato negli ultimi decenni, ma come ripeto è adesso necessaria una riflessione per recepire da un lato i dati tecnici sempre più sofisticati, recuperando al tempo stesso il rapporto umano e la dimensione narrativa del rapporto operatore sanitario – paziente. E’ una grande sfida perché è come richiedere al professionista di fare un doppio salto mortale, tenere insieme le competenze scientifiche conciliandole con una postura narrativa, ma è la via che può portare a una medicina sempre più completa e degna di questo nome. La rete è fondamentale per fare questo percorso in maniera capillare, non si potrebbe fare altrimenti, per condividere, conoscere, arricchirsi. Nel lockdown, lo scambio che si è creato è stato straordinario, è stata una forza ulteriore, quella dell’essere insieme in un momento di grande difficolta’. Inoltre, umanamente è una bellissima esperienza, anche per spezzare il senso di solitudine e avere un gruppo che ti supporti nei vissuti relazionali della professione, che nel mio caso sono solitari perché lavoro per la maggior parte del tempo in un ambulatorio e mi relaziono con singole persone.
Qual è il tuo prossimo progetto inerente alla medicina narrativa?
Il mio progetto di fondo è coinvolgere i medici, che non è semplice. Vorrei diffondere la medicina narrativa tra i medici, capire quello che provano, facendomi aiutare anche dalla letteratura, perché io leggo e ho sempre letto molto quindi ritengo la letteratura uno degli strumenti per me più importanti nella formazione, pratica che vorrei esercitare soprattutto negli ospedali. E poi è importante partire dagli studenti di medicina, c’è tanta richiesta per accedere alla facoltà, i corsi di laurea sono pieni. Evidentemente c’è una grande spinta ideale, che va salvaguardata e ad alimentata durante tutto il corso di laurea. Prima non veniva considerata questa spinta ideale, anzi quasi si tendeva ad annullarla, il fattore umano e l’emotività del medico erano considerati un ostacolo al processo diagnostico e terapeutico. Invece partire dalle motivazioni è un passo fondamentale, per lasciare sempre lo spunto di riflessione aperto negli studenti ed evitare che arrivino all’incontro con il malato emotivamente impreparati, come è capitato a me. Oggi sono soddisfatta di me stessa e del mio lavoro, ma ho avuto il dubbio di non essere adatta a fare il medico, ho dovuto trovare una mia personale via alla professione. Se avessi incontrato la medicina narrativa allora, avrei avuto molte risposte prima e mi sarei sentita meno sola. Credo moltissimo in questo progetto di formazione e penso che ci sia spazio per l’ascolto di tale esigenza, sia a livello istituzionale che universitario. Alcuni anni fa a un congresso di endocrinologia la lettura magistrale di apertura fu dedicata alla medicina narrativa e questo mi sembrò un primo segnale forte, c’era un pubblico di centinaia di persone a conferma del profondo interesse per l’argomento. Questa è sicuramente la strada da percorrere perché la medicina abbracci finalmente l’essere umano nella sua interezza.