Il tema di questo mese della rivista Cronache di Sanità e Medicina Narrativa parte dal legame tra Evidence-Based Medicine e Medicina Narrativa: ma perché esiste questo legame e perché dovrebbe essere perseguito?
Inizierò raccontandovi la mia esperienza come partecipante e relatrice al Metaphor Festival di Amsterdam. Questo evento, che si è tenuto a fine agosto 2019, ha visto arrivare ricercatori da tutto il mondo per discutere delle proprie ricerche negli ambiti più svariati: dalla politica all’arte, dal marketing alla salute. Sebbene il nome potrebbe evocare l’idea di un posto dove si parla e ci si confronta sulle metafore in maniera dissertiva, tutti hanno presentato ricerche effettuate con una rigorosa metodologia e molte delle domande poste erano proprio sul questo tema.
Nell’ambito della salute due sono le presentazioni che mi hanno favorevolmente colpito. La prima è stata la lezione di apertura tenuta da Anjan Chatterjee del Center for Cognitive Neuroscience dell’Università della Pennsylvania: il professore ha mostrato come le metafore attivino zone cerebrali profonde, soprattutto se sono nuove all’orecchio dell’ascoltatore, mentre metafore “comuni” – come un cielo a pecorelle – attivino le stesse zone delle frasi letterali. Questo studio e la creazione di un set di metafore “nuove” faceva da premessa ad una ricerca, che potremmo definire di EBM, sulla comprensione del linguaggio metaforico attraverso studi di neuroimmagini funzionali in persone sane e su pazienti con danni cerebrali focali e disturbi neurodegenerativi. I risultati hanno finora mostrato che l’emisfero destro gioca un ruolo privilegiato nell’elaborazione delle metafore, al contrario di quanto dichiarato in precedenza nella letteratura. Se, da una parte, questi risultati mettono in relazione il fatto che pazienti con danni cerebrali a questo emisfero avranno maggiori difficoltà nella comprensione, poco sappiamo di come queste persone vivano quotidianamente con la malattia e se questa difficoltà di comprensione è realmente percepita.
La seconda è stata la presentazione di Anke Oerlemans, che ha descritto la sua ricerca nell’identificare le metafore utilizzate da minoranze etniche e migranti presenti in Olanda per descrivere la demenza. Attraverso interviste condotte con la metodologia dei focus group, l’obiettivo del gruppo di ricerca è quello di contribuire a colmare il divario nella qualità dell’assistenza alle persone affette da demenza delle minoranze etniche. Questa ricerca sembra essere molto promettente, tuttavia lo stigma legato alla demenza (soprattutto in alcuni gruppi) sta rendendo difficile il lavoro ai ricercatori, perché l’intervista di gruppo presuppone un “venire allo scoperto” che molte persone non sono pronte ad affrontare.
Questo secondo progetto di ricerca si avvicina di più alla nostra metodologia di ricerca narrativa. Io, infatti, presentavo i risultati del progetto TRUST e in particolare l’uso delle metafore utilizzate da pazienti, familiari e medici per descrivere lo scompenso cardiaco. Questa analisi ha mostrato il disallineamento semantico presente tra i tre punti di vista in merito alla visione della malattia. Questa differenza sicuramente ci aiuta nella comprensione dell’altro, ma la domanda che ci si pone e che mi hanno posto è ora come si utilizzano questi risultati?
Prima di rispondere a questa domanda, è giusto fare un passo indietro e riflettere sul perché l’Evidence-Based Medicine ha avuto tanto successo negli ultimi anni. L’EBM ci permette di verificare delle teorie, di comprendere il comportamento medio di una popolazione nei confronti di una terapia, di un intervento o di un nuovo approccio, ci permette di definire delle categorie con cui leggere il mondo circostante. In un mondo dove aumenta la complessità della gestione delle malattie e dove tutto si cronicizza, avere degli schemi, delle categorie, delle procedure (o linee guida) da seguire diventa confortante e permette di preservarsi, soprattutto quando qualcosa nel processo di cura non funziona. Eppure le cause per negligenza medica sono in aumento, oltre il 50% dei medici dichiara di non seguire le linee guida e sono sempre più numerosi gli studiosi che evidenziano la fallacità dell’EBM.
Parte di queste cause sono legate al deterioramento della figura del medico agli occhi della società: se una volta tutti si affidavano alla sua conoscenza e alle sue “prescrizioni”, oggi le persone sono mediamente più scettiche e tendono a cambiare più facilmente figura di riferimento se non trovano risposte soddisfacenti. Tuttavia, questa non è l’unica professione che sta affrontando questa situazione, al contrario sembra che la diffusione delle nuove tecnologie, di Google, dei social media abbia portato ad un generale scetticismo verso l’autorevolezza di tutte quelle che una volta erano considerate figure di riferimento nella società.
Qualche giorno fa ero a Milano ad un evento in cui si parlava della metafora del nido in architettura, ed erano presenti un architetto e un neuropsichiatra a discutere dell’argomento: parte della discussione si è incentrata proprio sulla tematica dell’ascolto e di come applicare linee guida, tendenze, categorizzazioni predefinite sia deleterio per entrambe le professioni, in quanto allontana dai reali bisogni della persona a cui i servizi sono rivolti. I due professionisti, per far capire il loro punto di vista, hanno portato esempi di fallimenti lavorativi – e se ritorniamo al mondo della salute, in molte occasioni abbiamo trattato su questa rivista il tema del burn-out dei professionisti e gli effetti dei fallimenti delle relazioni di cura.
Ed è proprio quando parliamo di relazione di cura che entra in gioco la Medicina Narrativa, e ritorna la risposta alla nostra domanda lasciata in sospeso. Se la MN, secondo la definizione di Rita Charon, aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l’efficacia delle cure sviluppando la capacità di attenzione, riflessione, rappresentazione ed affiliazione con i pazienti ed i colleghi, la ricerca basata sulle narrazioni permette di avere quella base di partenza per formare i professionisti di cura sui bisogni, sulle paure, sulle speranze di un determinato gruppo di pazienti. Queste informazioni servono nella formazione dei team di cura per recuperare il lato relazionale della propria professione che spesso viene tralasciato durante i percorsi universitari. Comprendere come una persona vive quotidianamente permette di abbattere pregiudizi e stereotipi che si sono formati con il tempo, e permette di vedere la persona che si ha davanti nella sua unicità, invece che inserirla in categorie precostituite. E se la storia di ogni paziente è differente, allo stesso tempo tante narrazioni presentano tratti comuni che permettono di mettere in luce i problemi maggiormente avverti da pazienti, familiari e professionisti di cura.
Unire l’approccio EBM e la medicina narrativa permette di arrivare alla vera personalizzazione della medicina, che non è quella che tanto viene proclamata dai giornali, ma parte dall’ascolto attento della persona che si ha di fronte per capirne i bisogni e identificare, quindi, la strategia terapeutica più adatta a quella persona. La sfida più grande alla Medicina Narrativa oggi è proprio quella di diventare un insegnamento riconosciuto non solo da pochi, che per passione o per causalità si avvicinano a questa disciplina, ma a partire dalle università e rivolta per prassi a tutti i professionisti di cura.
In Italia ci sono già alcune esperienze di questo tipo, così come alcune aziende iniziano ad inserire la ricerca narrativa all’interno degli studi clinici, ma – citando le parole del Preside di una di queste Facoltà innovatrici – oggi i medici seguono le linee guida perché hanno paura di una causa perché nessuno ha mai mosso una causa di negligenza medica per non essere stato ascoltato. Allora, la domanda che rivolgiamo a tutti voi è: dobbiamo davvero arrivare a questo? La società è capace di cambiare senza lo spettro della punizione?