Il coraggio di introdurre le competenze narrative nella clinica e nella scienza. Recensione di “Medicina Narrativa. Onorare le storie dei pazienti”, di Rita Charon

È stato pubblicato in italiano il libro Medicina Narrativa. Onorare le storie dei pazienti di Rita Charon, edito da Raffaello Cortina e curato, in una splendida traduzione, da Cristian De Lorenzo e Micaela Castiglioni.

Sono passati più di dieci anni dalla sua prima edizione in inglese, rivolta a tutti gli amanti e futuri esperti di Medical Humanities. In molti ci siamo formati su questo testo, che abbiamo considerato sacro: qui abbiamo appreso quanto spazio la dottoressa Charon avesse dato alle competenze narrative che i professionisti della cura devono possedere.

Sono le competenze narrative che aprono all’ascolto, superando i tecnicismi degli algoritmi decisionali, e che riescono a creare una relazione di affiliazione tra l’équipe sanitaria, i pazienti e i familiari. D’altra parte, l’amore per la letteratura non medica e l’arte è una voce della Jefferson Empathy Scale, strumento volto a misurare il livello di empatia proprio nel contesto di cura: più basso è lo score ottenuto, maggiore è il distacco algido dal paziente.

In questo capolavoro, Charon insegna a onorare le storie dei pazienti: un messaggio controcorrente, in un mondo di Medicina basata sull’evidenza che ha spesso marginalizzato queste storie. Charon approfondisce la scrittura animata dei casi clinici, cominciata da Oliver Sacks e a cui lei ha dato il nome di cartella parallela, che diventa uno strumento didattico per gli studenti di Medicina e altre facoltà, così come per le équipe senior. Charon inserisce l’obbligatorietà di scrivere in modo narrativo fin dall’università; insegna a leggere i classici, e a scrivere.

Gli strumenti letterari, per Charon, sono preziosi e indispensabili per la pratica clinica di tutti i giorni. Come una ginnastica, Charon porta nei reparti il close reading, una minuziosa analisi del testo che osserva come i singoli elementi si rapportano con insiemi più grandi, senza tralasciare la formula del testo, i temi e gli schemi letterari – tutte abilità che noi impariamo a scuola.

Ora, viene da chiederci per quale motivo noi europei e italiani non siamo riusciti a valorizzare il nostro patrimonio classico, culturale e artistico, facendo sì che diventasse parte anche delle discipline mediche e scientifiche.

Abbiamo esperienza di scuole in cui ci hanno insegnato la poesia come piacere e come riflessione, la letteratura e il teatro classici, Dante, Shakespeare con i suoi sonetti, Manzoni e la descrizione della peste del Seicento; di gite e viaggi organizzati dalle scuole stesse in pinacoteche, musei, chiese, templi, città imprescindibili per il nostro immaginario culturale e storico. La storia, appunto, e la filosofia caratterizzano ancora in maniera trasversale i percorsi di studio. L’insegnamento dell’arte ha ampliato i suoi confini, passando dai “grandi”, come Antonello da Messina, Leonardo e Caravaggio, e arrivando a includere Warhol, Rothko, Lichtenstein, Basquiat, Frida Kahlo. Dallo studio del latino e del greco antico abbiamo imparato a far rivivere delle lingue “morte”. Soprattutto, le nostre scuole ci hanno spinto verso il senso critico, e ci hanno insegnato la curiosità.

Il fatto che dobbiamo imparare dalle esperienze della Columbia University come di altre università statunitensi, ci indica che quello sterminato patrimonio appreso a scuola – e che si considerava essere “retroterra culturale” in Italia e in buona parte d’Europa – è rimasto fermo al palo, soprattutto nelle discipline scientifiche. Chi intraprende studi medici e scientifici, ad esempio, non scrive quasi più niente fino alla tesi di laurea.

Nei suoi corsi alla Columbia University, Charon “eredita” studenti che sono abituati a lezioni più informali e colloquiali, e che spesso non hanno una vasta padronanza del campo umanistico, storico, artistico. Ma non solo: come nota Carol-Ann Farkas, Professore Associato presso il Massachussets College of Pharmacy and Health Sciences (MCPHS) di Boston, la qualità dell’educazione che si riceve è marcatamente influenzata da diseguaglianze sociali, che separano chi ha accesso a maggiori risorse (inclusi libri di testo, visite ai musei, programmi d’arte) e chi no. Giustamente, Charon impone ai suoi studenti di imparare a leggere con disinvoltura i grandi classici letterari: tra gli americani, lei cita Faulkner, ma ritroviamo anche testi fondamentali di tradizione europea, da Shakespeare a Tolstoj e Cechov.

Viene dunque difficile capire perché non riusciamo a valorizzare non solo il patrimonio culturale che fa parte di noi, ma anche la ricchezza e la profondità che questo porta al nostro senso critico, alle nostre relazioni, a come narriamo noi stessi e il mondo che ci circonda – e in ultimo, quanto abbiamo lottato perché questo patrimonio fosse per tutti.

Non valorizziamo nemmeno il nostro Servizio Sanitario Nazionale. Charon scrive un libro perfetto, che si inserisce sì nel contesto educativo delle high schools, ma anche in quello economico della sanità statunitense: una sanità privata che si snoda attraverso le assicurazioni, e in cui i medici, fin da subito, devono instaurare una buona relazione di cura con un paziente che rimane inevitabilmente legato a un ritorno economico. Il messaggio di Charon, dunque, è ancora più forte, dal momento che insegna ai professionisti della cura che i pazienti vengono prima di ogni possibile profitto.

Chiediamoci come sia possibile che, nonostante modelli improntati in buona parte sul pubblico e una tradizione umanistica imprescindibile, riconosciamo più importanza a un paradigma “importato”, anziché dare spazio a quanto possiamo mettere in campo noi, con le nostre specificità, e alle riflessioni, certo diverse, ma a noi più prossime.

Una prospettiva, quella del riconoscerci, che non implica una opposizione verso le sollecitazioni che ci arrivano dal resto del mondo – d’altronde, diversi libri di autori, ricercatori e accademici non europei ci hanno più volte aperto scenari importanti; cito Stigma di Erving Goffman, canadese, per rimanere nel campo delle Humanities.

In Italia, la Medicina Narrativa è fiorentissima: c’è una società scientifica, ci sono Master universitari e istituzionali; un corso di Medicina Narrativa è stato inserito all’Università La Sapienza (Roma), mentre la Hunimed (Humanitas) ha un programma per futuri medici e infermieri che contempla anche competenze narrative, etiche e filosofiche.

Indubbiamente, Charon ha avuto la grandezza di valorizzare quello che noi, al contrario, abbiamo posto per lungo tempo nell’oblio.

Quasi come quando la Gran Bretagna si è presa le metope del Partenone, lasciate in un tragico stato di abbandono: ancora oggi, si dibatte se queste debbano o meno essere restituite alla Grecia, e intanto continuiamo a vederle esposte al British Museum. Voi che ne pensate?

Con un caloroso invito alla lettura di un libro fondamentale per riflettere sull’importanza dell’ingresso della narrazione nell’ambito di cura e delle competenze umanistiche nell’educazione dei professionisti sanitari.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

Questo articolo ha 4 commenti.

  1. Marina Mariani

    Può essere di interesse leggere gli scritti di Tullio Seppilli antropologo (deceduto 2 anni fa) che già negli anni tra il 1955 e 1959 poneva la questione con scritti come Il contributo della Antropologia culturale alla educazione e formazione medica

  2. Maria Cristina

    Nel mio percorso di cura la narrazione è stata fondamentale, tanto come il supporto di uno psico-oncologo che, esortandomi prima a partecipare a un Corso di Scrittura Creativa, mi ha suggerito poi di continuare con i miei racconti. Ne è risultato un libro dove non parlo della mia malattia, ma di quello che ho provato. Un modo diverso per guarire dalle mie ferite e, perché no, aiutare gli altri a riconoscerle come proprie, e affrontarle. Da due anni porto avanti un mio progetto, professionisti del mondo sanitario che nei loro racconti parlano di cosa hanno imparato dai pazienti. A breve uscirà un libro di cui sono orgogliosa, poiché credo nella Scrittura Curativa a tutto tondo. E questo mio piccolo ma per me grande progetto ne è la testimonianza.

    1. FULVIA CASTAGNA

      sono una terapista in pensione mi sembra di aver trovato una sorgente .

  3. Fulvio Casalis

    sono certo e consapevole che la strada aperta con un discorso aperto e leale con il proprio consulente , come del resto , con il coraggio di aprire il nostro passato a se stessi , è un ottimo inizio a narrarsi e volersi veramente bene per GUARIRE la propria ANIMA

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